USS Saratoga e L’Operazione Crossroads
Nonostante fossimo tutti convinti che le due esplosioni nucleari del 1946 – l’Operazione Crossroads, atta a studiare gli effetti di un ordigno atomico sulle navi da guerra – avessero avuto un effetto devastante sui 57 vascelli dislocati nell’area dell’esperimento, apprendiamo da Craig (la nostra guida canadese) che furono solamente 17 quelli affondati. Fra queste c’è anche la corazzata giapponese Nagato con i suoi imponenti cannoni da 410 mm, capaci di raggiungere 40 km di distanza, da cui fu dato l’ordine di attacco a Pearl Harbor e la portaerei americana USS Saratoga.
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Le altre navi vennero trainate verso gli USA e affondate durante il tragitto, fra queste, l’incrociatore Prinz Eugen (lungo 220mt), che in attività portava un equipaggio di 1550 marinai, ed è ora visitabile al largo dell’atollo di Ebaye.
Il danno dell’onda d’urto, devastante nei confronti di strutture rigide come i centri abitati, risultò molto inferiore su una flotta marittima.
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Le due esplosioni del ’46, entrambe di 23 kilotoni, rappresentarono la quarta e la quinta esplosione nucleare della storia: “Able”, a 158 mt sopra la superficie del mare e “Baker”, a 27 metri di profondità.
Furono i primi di numerosi test effettuati nelle Isole Marshall, nonchè i primi ad essere annunciati in anticipo dai mezzi di informazione ed osservati da un vasto pubblico di invitati, tra cui molti giornalisti di diversi paesi.
Per questa ragione, la scelta per le prossime immersioni si limita a due sommergibili, oppure ad altre unità, affondate in posizione capovolta a causa dell’onda d’acqua creata da “Baker”, che letteralmente riempì le navi.
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Con il gruppo, decidiamo di fare le ultime due immersioni sulla porta aerei Saratoga – sicuramente l’immersione più affascinante dell’atollo di Bikini – proseguendo nella penetrazione dei giorni prima.
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Pianificazione dell’immersione
Tazio e Diego sono compagni di stanza e stanno male da ieri: diarrea, vomito e dolori ovunque. Nessuno di noi ha il coraggio di dirlo apertamente, ma i nostri sguardi tradiscono lo stesso sospetto, che si tratti di dengue.
Prima di imbarcarci, una terribile epidemia di febbre dengue, abbattutasi su Ebaye, ci aveva costretti ad una sosta forzata di due giorni nella località marshallese, dove il rudimentale ospedale locale era stato letteralmente invaso da più di un centinaio di persone contagiate, su tremila abitanti.
Il dengue – o come la chiamano “febbre spacca – ossa”- non è mortale, ha un’incubazione dai sette ai tredici giorni e presenta i sintomi di una brutta influenza intestinale, con febbre molto alta e dolori alle ossa.
Tazio e Diego presentano gli stessi sintomi.
Nessuno dei miei compagni vuole scendere oggi e la guida si offre di accompagnarmi all’interno della portaerei americana USS Saratoga.
Proprio perché saremo noi due soli, mi dice subito “questa immersione te la ricorderai per tutta la vita!”.
Preparo velocemente il mio rebreather e, dopo aver seguito la check list dei controlli, sono pronto per entrare in acqua.
La cima di discesa ci porta sul ponte di decollo della porta aerei, che giace sul fondale a 55 mt di profondità in perfetto assetto di navigazione.
Dalla cima ci dirigiamo verso una grossa cavità, che costituiva la piattaforma-ascensore e serviva al trasferimento degli aerei dalle stive al ponte di volo.
Da qui si può accedere ai sei diversi ponti sottostanti, che si sviluppano all’interno di questa mastodontica nave da guerra formando una vera e propria cittadella.
La navigazione è complicata, poiché le enormi masse ferrose della nave impediscono l’utilizzo della bussola.
La struttura è complessa, caratterizzata da passaggi stretti, in cui siamo costretti a togliere le bombole di bail-out, per riuscire faticosamente a passare e sappiamo anche che la visibilità potrebbe ridursi drasticamente se, per un colpo maldestro di pinna, o anche solo a causa delle bolle che colpiscono il soffitto, fosse sollevata la sottile polvere di ruggine che avvolge ogni cosa.
Il problema della visibilità nella USS Saratoga
La ruggine, una volta sollevata, si deposita molto lentamente e tutti i passaggi presenterebbero una pessima visibilità, se ripercorsi a ritroso.
Sono queste le ragioni che rendono la penetrazione in un relitto un’attività da non prendere mai alla leggera e che ha provocato parecchi incidenti mortali, anche fra i subacquei più esperti.
In passato, ho avuto anch’io una terribile esperienza in tal senso e ricordo di aver raggiunto, con un inspiegabile stato di calma, l’accettazione della morte imminente.
Incapace di muovermi e in condizioni di visibilità minima, la mia scorta d’aria si stava esaurendo, senza che io potessi nemmeno leggere i dati del computer o del manometro.
Allora non ero ancora esperto di penetrazione in relitti, ed ero entrato per vedere un grongo, il più grande che avessi mai visto, insieme ai miei compagni.
Non potevo immaginare che avrei vissuto proprio con “lui” quella terribile esperienza.
In un attimo, in quello stato di quasi serenità, nella mia mente si fecero spazio, nitidi, in una curiosa e perfetta sequenza cronologica, le immagini della mia vita trascorsa.
Rividi chiaramente immagini completamente dimenticate.
I momenti più dolci di mia madre, gli attimi di felicità all’asilo con i miei amichetti, l’entusiasmo che mi riempiva letteralmente il cuore quando con mio padre in montagna raggiungevo per primo la vetta, il mio primo amore e quelli successivi…una carrellata di emozioni che mi rese sorprendentemente calmo e con il cuore pervaso d’amore.
L’attualità della tragica situazione nella quale mi ritrovavo sembrava secondaria e pensai che quello fosse l’ultimo dono che Dio mi avrebbe offerto, insieme a quell’enorme grongo, ancora lì con me.
Cercando di muovermi lentamente per divincolarmi dalla strozzatura nella quale ero rimasto incastrato, la mia mano trovò una cima ed io – non so nemmeno perché – decisi di seguirla afferrandola. Non sapevo ancora che nelle immersioni in ambienti chiusi posizionare “fili di Arianna” è una tecnica fondamentale, al fine di scongiurare pericoli come quello in cui ero caduto.
Una piccola voce nella mia mente mi esortò “afferralo, seguilo e non lo perdere”.
Così feci e mi ritrovai prima fuori, poi in superficie.
La prima cosa che vidi furono i volti dei miei compagni sul gommone, disperati, che alla mia vista esplosero in un grido di gioia.
La serenità, che aveva avvolto il mio cuore nel relitto, presto svanì e per i mesi successivi mi svegliai di soprassalto, nel cuore della notte, ancora in preda all’incubo di quei momenti.
Per la seconda volta nella vita mi resi conto che l’istinto di sopravvivenza è ben più forte di quello dell’amicizia: i miei compagni, che erano stati al mio fianco fino a pochi istanti prima – a cui stringevo disperatamente la mano in un gesto di preghiera perché non mi abbandonassero lì da solo – in un attimo scomparvero.
La guida avrebbe potuto afferrare la mia mano, farmi prendere contatto con la cima guida che mi avrebbe velocemente portato in salvo, ma per qualche ragione – forse la distanza da me, o la necessità di mettere in sicurezza il gruppo (non lo so) – non lo fece.
Gli eroi dei libri, quelli che scelgono coscientemente di mettere a rischio la propria vita per salvarne altre, sono una rarità e chi compie un atto di coraggio, forse lo fa, nella maggior parte dei casi, se ha la certezza di cavarsela.
Pochi anni fa mi rattristai molto alla notizia che un istruttore, che avevo da poco esaminato e promosso a pieni voti, era morto in circostanze del tutto simili a quelle in cui mi ero trovato io, durante la penetrazione di un relitto in Adriatico, apparentemente un’immersione semplice, a poca profondità.
Forse fu proprio questo a trarlo in inganno: ciò che appare un semplice relitto, in condizioni di ottima visibilità, in un attimo può trasformarsi in un inferno.
Ricordo di aver sperato, con tutto il mio cuore, che Dio avesse concesso anche a lui un attimo finale di serenità, prima di portarselo via con sé.
All’interno della USS Saratoga
Raggiungiamo la parete dal vano ascensore dove riconosciamo la piccola fessura d’ingresso.
Esaminati i piani di costruzione della Saratoga, abbiamo studiato con attenzione un percorso che si svilupperà su tre diversi livelli, fino a portarci nel cuore della nave.
Siamo ben attrezzati con reel, spool (rocchetti con diverse centinaia di metri di cima, che srotoleremo e fisseremo man mano che avanzeremo nel relitto) e con diverse torce.
In un’immersione di questo tipo, utilizzare un rebreather comporta numerosi vantaggi: la scorta di miscela respiratoria è praticamente illimitata, non si producono bolle che potrebbero ridurre la visibilità e diminuisce i tempi di compressione.
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Alcune delle bombole decompressive le abbiamo già lasciate all’esterno (fissate ad un treppiede della nave che al tempo montava strumenti di misurazione atmosferica), così da muoverci con il minor ingombro possibile.
Il percorso studiato ci porterà alla mensa ufficiali, a quella dei marinai, all’infermeria, nella sala del dentista, fra le cuccette della ciurma e degli ufficiali, nella sala del barbiere e nella sala dei palombari, attraversando le cucine.
Una penetrazione che dovrebbe durare all’incirca 90 minuti, ad una profondità variabile fra i 30 e i 45 mt con una miscela contenete 16% di ossigeno e 30% di elio che mi permetterà di avere una buona lucidità mentale e di effettuare, prima di riemergere, una decompressione di circa un’ora.
Abbiamo pianificato l’immersione per avere anche il tempo sufficiente per scattare qualche fotografia degli scorci più interessanti e per girare qualche spezzone di video di questo luogo dove il tempo sembra essersi cristallizzato al momento dell’esplosione nucleare.
Un ultimo “OK” e siamo dentro.
Entriamo da un claustrofobico cunicolo che mi costringe a diversi tentativi prima di riuscire a penetrare, pur avendo passato alla mia guida le bombole di sicurezza e la macchina fotografica. Affronteremo molti altri passaggi impegnativi, ma con calma e muovendoci lentamente riusciremo a entrare ovunque.
Alcuni tratti del percorso sono già stati attrezzati con “sagole guida”, in altri punti dovremo posizionarne le nostre, ma, con l’ausilio di piccole frecce di plastica da incastrare sulla cima, riusciremo sempre ad orientarci, individuando la direzione di ingresso e uscita.
Dopo un lungo corridoio stretto – che riconosciamo come la zona cuccette dalla presenza delle brandine ancora visibili sui lati – accediamo ad un ampio vano con al centro un grosso tavolo: siamo nella mensa ufficiali.
Alle pareti possiamo ancora vedere le scaffalature zeppe di bicchieri; su alcuni piani ci sono ancora brocche, teiere, piatti, ciotole e pentole.
Agli angoli del soffitto notiamo numerosi ventilatori – che probabilmente rendevano la mensa un po’ più fresca – e le lampadine sono ancora intatte.
Piego i bracci degli illuminatori della mia macchina fotografica, in modo da che la luce non colpisca frontalmente le particelle di sospensione rovinando le immagini.
Mi muovo con estrema cautela, perché al minimo movimento azzardato la visibilità in questa zona diminuisce ancor più rapidamente del previsto.
La zona infermeria dell’USS Saratoga
Usciamo e siamo nuovamente in uno stretto corridoio, poi alla scala che ci porterà più giù, al ponte del livello inferiore, fin nella zona infermeria.
Sulla scala capeggia l’insegna “SICK BAY” e devo impegnarmi non poco per riuscire a fotografarla, usando il passamani per appoggiare delicatamente le pinne.
Mi concentro sul complicato passaggio successivo, in fondo alla scala dovrò effettuare una brusca virata di 180°.
Osservo attentamente il passaggio per capire come muovermi e minimizzare l’impatto con le pareti, il fondo ed il soffitto.
Ci sono.
Raggiungiamo la zona dell’infermeria, ancora arredata con immensi scaffali alle pareti e cassettiere ancora aperte.
Nel limo farraginoso che riempie copiosamente gli scomparti, riusciamo ancora a vedere una miriade di boccette di vetro di diverse dimensioni e strumenti in acciaio per le medicazioni. Resisto alla tentazione di afferrali per poter leggere le indicazioni incise nel vetro, so che ciò comporterebbe sollevare una nebbia tanto fitta, da farci completamente perdere l’orientamento.
Proseguiamo lungo un passaggio un po’ più ampio dei precedenti ed entriamo nello studio del dentista.
La sedia con la luce, il tipico lavandino per il risciacquo, gli strumenti ancora perfettamente allineati sono alcuni dei dettagli che cerco di cogliere con la mia macchina fotografica, ma lo spazio è sacrificato ed è davvero difficile muoversi.
Mi riprometto di stampare alcuni degli scatti e regalarli al mio dentista di Torino, che mi è stato davvero di grande aiuto nei mesi prima della partenza: non c’è nulla di peggio che pensare di ritrovarsi in immersione, con un dente spezzato a causa della pressione e a 24 ore di navigazione dalla prima struttura medica!
Sono a trenta minuti di penetrazione, all’interno di questo incredibile labirinto silenzioso, dove la vita sembra essersi fermata a ieri. Scatto, ma mi rendo conto che nessuna immagine potrà mai rendere l’idea delle emozioni che sto provando.
Solo il colore di terra bruciata e ruggine, che caratterizza tutti gli interni, ci riporta alla realtà e ci fa capire che il processo di decomposizione della nave è già iniziato da un pezzo.
All’uscita bisogna ripercorrere un tratto a ritroso, così mi trovo avvolto da una nuvola di fanghiglia sospesa che mi impedisce di vedere persino le mie mani. Le luci della macchina fotografica sparano negli occhi i riflessi della sospensione, e questo peggiora ulteriormente la situazione.
Sento la guida che mi afferra la mano e l’appoggia sul cavo, questa volta sí!
Completamente accecato, cerco di rimanere tranquillo ed avanzo facendo scorrere la cima fra il pollice e l’indice ad anello, facendo ben attenzione a non tirare per non strapparla.
Avanzo lento, fino a che la visibilità migliora ed inizio piano piano e rivedere i contorni delle pareti ed a sentire al tatto una delle frecce direzionali che abbiamo posizionato navigando fino a qui.
Sono uscito.
La stanza dei palombari
Scambio un segnale di “OK” con la guida e ci infiliamo lungo un’altra stretta scala, ancora più già, al livello inferiore.
Già so che in fondo mi aspetta la solita stretta virata a 180° e mi prendo un attimo per concentrarmi. Supero anche questo complicato passaggio e ci ritroviamo in una voluminosa stanza; sul pavimento, in un angolo, vedo due splendidi caschi da palombaro; mantenendo al meglio l’assetto, con le pinne ben lontane dalle pareti e dal fondo, scatto un paio di foto e passo la macchina alla guida perché mi possa immortalare lì, accanto al “magnifico tesoro”.
Il computer segnala che sono da oltre un’ora nella pancia di questa mastodontica nave, dove hanno convissuto per anni ben 2500 persone, tra marinai, piloti e ufficiali.
La sala del barbiere dell’USS Saratoga
La visibilità sta nuovamente diminuendo in modo preoccupante, afferro il cavo guida che mi scorre fra le dita e mi porta fuori dal vano dei palombari, nella stanza del barbiere.
La poltrona, al centro, mi ricorda proprio quelle su cui sedeva mio padre, quando da bambino lo accompagnavo alla bottega del barbiere dietro casa. Ai tempi stavamo ancora in una piccola stazione termale della Valle Brembana, in provincia di Bergamo e la vita scorreva lenta e placida come le acque del fiume (Brembo) che l’attraversava.
Seguo con attenzione le pareti, per fotografare la poltrona dalle diverse angolazioni, inquadrandone i dettagli: la leva laterale per alzare la seduta, quella più piccola per reclinare lo schienale e l’elaborato poggiapiedi in stile “Bell’Époque” tanto diffuso nel paesino termale di San Pellegrino Terme.
All’uscita seguo ancora il cavo guida e le frecce in plastica, posizionate precedentemente, che mi rassicurano, indicandomi la via di ritorno al “filo d’Arianna” principale.
Ho completamente perso la concezione del tempo, volando senza gravità fra gli spazi angusti di questa meravigliosa città sommersa.
Il ponte di comando della USS Saratoga
Dopo aver percorso un tratto piuttosto lungo, verso la parte centrale della nave, colleghiamo un nuovo cavo, inserendo un’altra freccia direzionale ed un altro marcatore nel punto di intersezione, che ci permetterà di orientarci quando torneremo, anche se la visibilità sarà inevitabilmente compromessa.
Da lì, ci dirigiamo verso una porta spessa e blindata leggermente aperta, da cui accediamo alla sala di comando.
Noto subito una struttura con un grande schermo bombato, intuisco che si tratta del radar, con tutt’intorno pannelli, bottoni, leve, indicatori e altoparlanti.
Cerco di scattare qualche foto, lavorando al meglio con le luci, ma le inquadrature mi risultano difficili, gli spazi sono davvero angusti e non voglio sporcare l’immagine con i riflessi della sospensione.
La mia attenzione, però, è presto attratta dal grosso tavolo per il carteggio, con ancora presenti alcuni strumenti di misurazione. Ai fianchi, appesi sugli appositi supporti ci sono due telefoni e, al centro, un microfono di bauxite con un paio di cuffie alla base.
Grossi ventilatori puntano verso il centro della sala, mi immagino la frenesia delle attività di guerra e le urla che, da lì, impartiscono ordini a tutti i distretti della Saratoga.
Diversi ponti della USS Saratoga
Usciamo e ci troviamo a qualche metro da una porta con sbarre e feritoia.
Illumino il vano retrostante e vedo un’enorme scaffalatura, fatta di piccoli loculi contrassegnati da etichette alfabetiche.
Vecchie macchine da scrivere giacciono ancora sui piani alla base della scaffalatura: è l’ufficio postale.
Come potrei non immaginare i marinai, impegnati in uno dei più sanguinosi teatri di tutta la seconda guerra mondiale mentre fanno la fila in trepida attesa di ricevere notizie dalla famiglia e dalle fidanzate.
Ancora qualche foto e ritorno con cautela al cavo principale, mentre la guida – dietro a me – recupera la sagola sulla spool.
Abbiamo fatto bene a fissare la freccia di direzione all’intersezione fra le cime, perché non si vede più quasi nulla.
Prendiamo la direzione indicata e, dopo circa dieci minuti di stretti passaggi fra le cuccette e i tavoli della sala mensa, intravediamo la luce che, come una lama, contrassegna l’uscita.
Uscita dalla USS Saratoga e risalita in superficie
Sono all’ultimo stretto passaggio, ma sento subito il forte desiderio di rientrare in quel magico incredibile mondo che sto lasciando forse per sempre.
Ci avviamo verso le bombole di fase che abbiamo lasciato all’entrata e iniziamo la nostra lenta risalita, intervallata da diverse tappe di decompressione in compagnia di qualche squalo tigre, una tartaruga e dei branchi di carangidi, che ci rendono l’attesa meno noiosa.
Chiudo gli occhi un attimo e scorro tutti i punti della nave che ho appena visitato, sarà difficile che io mi trovi ancora qui e non voglio dimenticare nemmeno un solo dettaglio di questo fantastico viaggio nella pancia della USS Saratoga.
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Complimenti!!
Un’emozione incredibile Yme….
grazie!
Ho avuto i brividi durante tutta la lettura.
Ciao Yme,
complimenti per l’interessante e bella descrizione di un’affascinate avventura sicuramente indimenticabile per tanti aspetti.
Sei stato un compagno d’avventura speciale, la tua grande esperienza unita alla tua disponibilità, cortesia e semplicità ha reso questa esperienza ancora più bella e piacevole.
Averne di compagni così! È un privilegio
Grazie di cuore
Grazie Yme per questa affascinante bella avventura di immersione!
Ho avuto i brividi durante tutta la lettura. Complimenti
Bellisma descrizione, sembrava di essere lì con te, complimenti!
Leggendo questo articolo ho vissuto anch’io questa immersione: Grazie !!
Ho letto questo articolo tutto d’un fiato, come si dice. Grazie !!